Forti, potenti... schiavi
di Maria Lucia De Luca
Il potere è un meccanismo perverso di cui è vittima non solo chi subisce, ma anche chi impone. Rappresentato con la figura del Demone del sesto cielo, che prova piacere nello sfruttare gli altri, si alimenta con il disprezzo, la chiusura, la paura
Il potere è un modo di pensare il mondo. È una logica, un meccanismo in base al quale c’è chi comanda e chi subisce, chi vince e chi perde, chi è forte e chi è debole. Potere è fare questa guerra. E tutte le altre. Potere è non far nulla per evitarla. Ma potere è anche sentirsi impotenti, non dare “potenza” alla propria vita, alla propria autodeterminazione. Potere è giudicare se stessi o gli altri secondo dei modelli. Potere è chiedere a tua figlia: «Che voti hai preso oggi a scuola? Sei stata la più brava?». Potere è il motto di Hobbes: homo homini lupus. Potere è fregare l’automobilista accanto e passare per primo. Potere è pulire la tovaglia nel giardino della signora di sotto, è sentire la musica a tutto volume. Potere è vendere l’eroina, potere è farsi di eroina, potere è violentare una persona, potere è non denunciare quella violenza. Potere è imporre il burqa alle donne afgane, potere è voler togliere loro quel burqa. Potere è obbligare tutto il mondo a parlare inglese, a pensare inglese. Potere è il sistema economico globale, ma potere è la nostra vita quotidiana, la nostra schiavitù al consumismo, mantenuta dalla fame dei due terzi della popolazione mondiale. Potere è sentirsi meno o sentirsi più. E anche sentirsi “uguali”, branco, maggioranza, massa. Potere è sacrificare gli altri per i propri fini. Una storia musulmana racconta di tre tori che pascolavano in un grande prato verde, e di un leone che se li voleva mangiare ma non ci riusciva, perché il terzetto era molto unito e i tre si proteggevano a vicenda. Un giorno che il toro nero non venne il leone disse agli altri due: «Se me lo farete mangiare avrete a disposizione l’intero prato solo per voi, e io avrò la pancia piena per tutto l’inverno». I due acconsentirono: il leone uccise il toro nero e loro si godettero il prato fino a primavera. Passato un po’ di tempo, una volta che il toro rosso era tutto solo il leone gli si avvicinò: «Fammi mangiare il toro bianco, così avrai il prato tutto per te. Che ne dici?». Il toro rosso assentì, e fu così che poco dopo fu mangiato anche lui.
Servizio o dominio?
La radice indoeuropea del termine potere è potis, signore, colui che può: esercitare un diritto/permesso (vedi anche l’inglese may), o esprimere una capacità/potenzialità (inglese can). Adolfo Perez Esquivel, nell’intervista pubblicata su questo giornale, dà anche lui una doppia definizione del concetto di potere, di servizio e di dominio, che potremmo definire rispettivamente come “potere di” fare qualcosa e “potere su” qualcuno o qualcosa. Per potere come servizio potremmo intendere il fatto di contribuire con il proprio essere, le proprie uniche capacità e potenzialità, a un complesso più ampio di cui ci si sente parte, fatto di esseri umani e di altre entità viventi e non viventi. Esprimendo con tale atteggiamento la propria potenza – perché le caratteristiche individuali vengono manifestate e non inibite – e al contempo il massimo rispetto per ogni elemento con cui si ha relazione, in un rapporto di assoluta pari dignità e mutua necessità. Rompere questa relazione di collaborazione reciproca che, come sosteneva Dudley Weeks nello scorso numero di Buddismo e società, è il comportamento naturale degli organismi viventi, una sorta di itai doshin naturale, e cominciare a considerare la “mia individualità” o la “mia capacità” più importante della “tua”, a sentire gli altri e l’ambiente come limite “scomodo” alla propria autorealizzazione o come “strumento” per realizzare i propri fini, trasforma il potere di fare qualcosa da capacità o dote al “servizio” di sé e degli altri in un mezzo per esercitare potere su qualcuno o qualcosa. Diventa appunto dominio, una relazione squilibrata tra parti diseguali: chi esercita il potere e chi lo subisce. E, come reazione, la libertà diventa non più libertà di ma libertà da. Nel Buddismo il potere come dominio viene identificato con la figura del demone del sesto cielo, definito come colui che fa libero uso dei frutti degli sforzi degli altri per il proprio piacere. «Lo si può considerare – suggerisce Daisaku Ikeda nella Saggezza del Sutra del Loto (vol. 2, p. 140) – come la tendenza fondamentale della vita a servirsi di tutto e tutti come mezzo per i propri fini». In La cura della malattia Nichiren Daishonin dice: «La qualità oscura della natura originaria dell’essere umano si manifesta nel demone del sesto cielo». «Io credo – commenta Ikeda ne La vita mistero prezioso (pp. 126-128) – che la “qualità oscura” della natura originaria dell’essere umano sia l’egoismo che risiede all’interno del sé. Potremmo anche chiamarla il demone della vita, che prende il controllo del sé e lo costringe a operare esclusivamente a proprio vantaggio». L’aspetto oscuro dell’essere umano si esprime quindi, secondo il Buddismo, nella sua schiavitù al meccanismo perverso del potere, nella sua volontà di dominare il resto dell’esistente impedendogli di manifestare le sue qualità tipicamente “umane” di empatia e compassione. «Non è senza significato – continua Ikeda – il fatto che i demoni che abitano il Sesto cielo godano della vita dell’Estasi suprema grazie al controllo e allo sfruttamento degli altri. Ovviamente è proprio l’atto del controllare e dello sfruttare gli altri che sta alla base di questa estasi. […] Nella nostra vita, la felicità che otteniamo dall’affermazione del nostro controllo sulla natura e sulle altre persone ha una certa caratteristica diabolica».
Quale potere?
Si tratta di un potere occulto, sottile, di cui siamo tutti schiavi, sia chi lo esercita e sia chi lo subisce. Rompono le scatole questi quattro quinti del pianeta che vivono con meno di mezzo dollaro al giorno, rompe le scatole quel sentimento di pena e d’impotenza che ogni tanto sento dentro di me. Perché devo correre, devo vincere, devo essere brava, efficiente. I soldi, la carriera, lo status. È una freccia, una direzione a senso unico. Il progresso a tutti i costi, la crescita economica a tutti i costi, il successo a tutti i costi. E se non sei dentro, sei fuori. Sei “in via di sviluppo”. Non si tratta solo di arraffare. Non è solo una questione di avidità. Si tratta del complesso di valori che tutto ciò ha messo in moto, quello che detta le misure, i metri di gudizio, l’analisi della realtà. Un sistema che inquina silenziosamente, che fa dubitare del vicino, che mette tutti in competizione, in gerarchia, che reprime la collaborazione. Un sistema che rende ciechi e irresponsabili perché prigionieri di un’ideologia che non permette di vedere i suoi effetti nefasti. Scrive il filosofo Achille Rossi che proprio questa è «la differenza fra l’ideologia economica dominante e i regimi oppressivi che l’umanità ha conosciuto nel corso della sua storia millenaria. La repressione aperta produce lotta e ribellione, esalta i martiri e i testimoni; la repressione silenziosa è una specie di dolce e piacevole eutanasia della coscienza e porta all’omologazione planetaria» (Il mito del mercato, L’altrapagina, Città di Castello, p. 49).
L’ignoranza di sistema
Nella serie Sette sentieri per l’armonia globale Ikeda analizza il concetto di “spirito astratto”, espressione coniata dal filosofo francese Gabriel Marcel per indicare la tendenza da imporre ordine all’animo umano dal di fuori, spesso attraverso la pressione esterna. Questo accade quando si fa l’errore di collocare l’ideologia al di sopra della realtà delle persone, sacrificando vite umane allo spirito astratto. Quando si ha troppa fretta di riformare il sistema dimenticandosi l’individuo, che è la parte più importante del processo di riforma. Quando si fa la distinzione tra buoni e cattivi, tra bravi e meno bravi, quando si crea il Nemico, quando si inglobano i singoli individui in categorie fisse, come gli extracomunitari, i negri, le donne, gli omosessuali… Osserva Marcel: «Per trasformare qualcuno in capro espiatorio è indispensabile che lo converta in un’astrazione: il comunista, il fascista, l’antifascista e così via…». Commenta Ikeda: «Se ci costringiamo a riesaminare gli incubi del ventesimo secolo – purghe, olocausto, pulizie etniche – scopriremo che tutti hanno avuto origine da un ambiente in cui il linguaggio era manipolato per attirare l’attenzione delle persone unicamente sulle differenze. Convincendo la gente che queste differenze erano assolute e immutabili si oscurava l’umanità degli altri, legittimando così la violenza nei loro confronti». Quando le astrazioni sono date come certezze diventano miti, alimentando il dogmatismo, l’intolleranza e il fanatismo.Creando quello che Ortega y Gasset ha definito uomo-massa, un individuo con un forte appagamento di sé che «lo porta a chiudersi a ogni istanza esterna, a non ascoltare, a non mettere sulla bilancia del giudizio le proprie opinioni e a non far conto degli altri. La sua sensazione intima di dominio lo stimola costantemente a esercitare un’azione di predominio. Agirà, quindi, come se soltanto lui e i suoi consimili esistessero al mondo…». E cercherà di imporre lo stesso “bene” a tutti, spesso con ogni mezzo. È questo il dramma delle rivoluzioni, perché il bene non si può imporre, perché non c’è un bene uguale per tutti se non quello della vita, di ogni vita e delle sue inesauribili potenzialità. Per questo il Buddismo oppone all’astrazione della massa la concretezza del cambiamento di ogni singola persona. È la rivoluzione umana di ogni uomo e di ogni donna, in continua interrelazione, che può costruire un nuovo mondo, imprevedibile, dinamico, con infinite possibilità. «Nella vita – scrive Ikeda nella Saggezza del Sutra del Loto (vol. 2, p. 147) – non c’è un ordine gerarchico. Tutta la vita ha un valore inestimabile. Dobbiamo educare i bambini e gli adulti in modo che nessuno si senta impotente. Dobbiamo nutrire il cuore e creare una vera solidarietà umana. Questa sarà la chiave per l’epoca attuale».
Com-passione, com-petizione
Soffrire insieme, cercare insieme. È il prefisso “com” (cum, in latino) che sposta i termini della questione. Che scardina la logica del dominio. Che distrugge i sistemi autoritari. Che trasforma la freccia del potere nella rete delle relazioni. Come quel gruppo di bambini africani – nel racconto di Raimon Panikkar – invitati a gareggiare per conquistare delle caramelle, che si prendono per mano e corrono insieme verso la meta. (cfr. R. Panikkar, “Economia e senso della vita”, in Aa. Vv, Come sopravvivere allo sviluppo, l’altrapagina, Città di Castello, 1997). «La natura demoniaca del potere – scrive ancora Ikeda (ibidem, p. 144) – opera per disintegrare e dividere. Divide le persone, divide un paese da un altro, spezza i legami dell’individuo con la natura. La compassione invece unisce. Nell’universo c’è una compassione che unifica. In origine l’universo è compassione e, in questo senso, è il palcoscenico ideale per la lotta tra il Budda e il demone, tra la natura demoniaca del potere che considera la vita come un mezzo e la compassione che fa della vita il fine».
Il rispetto militante
Ma come si lotta? Nel Sutra del Loto c’è un bodhisattva chiamato Mai sprezzante (Fukyo, in giapponese). Egli crede che, poiché tutti gli esseri umani posseggono la natura di Budda, nessuno possa essere disprezzato, che a ogni forma di vita vada accordato il massimo rispetto. Anche quando persone tronfie e arroganti lo denunciano e lo colpiscono con bastoni e pietre, egli continua a rifiutarsi di disprezzarli, convinto che ciò equivarrebbe a disprezzare il Budda. E continua a predicare questa dottrina fino alla fine, manifestando un supremo rispetto per l’umanità in ogni sua parola o azione. È un rispetto militante. Fa pensare a un dialogo incessante, a una ricerca continua dell’altro/altra, a un desiderio di imparare, a un instancabile confronto con chi ha opinioni diverse, con chi non la pensa come noi, con chi consideriamo il Nemico o il pericolo. Certo, bisogna attrezzarsi. In realtà l’incrollabile perseveranza del bodhisattva Fukyo si basa sulla sua assoluta convinzione di essere egli stesso un Budda, di avere il potere del Budda. Questa certezza – sostiene Ikeda – è l’essenza della disciplina buddista, l’allenamento a sviluppare costantemente questo pensiero, questa consapevolezza, questo potere. Scriveva Leonardo da Vinci: «Non si può aver dominio più grande o più piccolo che quello su se stessi». Se siamo sufficientemente padroni di noi stessi, se ci conosciamo abbastanza per “trasformare” il nostro aspetto oscuro e coltivare la nostra “parte illuminata”, non saremo costretti – per sentirci “bene” – a imporre i nostri valori agli altri e nemmeno a calpestare i loro ideali, valori e tradizioni. Ci sentiremo invece così forti e potenti, così bene e a nostro agio da provare curiosità, interesse e amore per chi è diverso da noi, per sconosciuti modi di essere e di sentire. E di pensare il mondo.
di Maria Lucia De Luca
Il potere è un meccanismo perverso di cui è vittima non solo chi subisce, ma anche chi impone. Rappresentato con la figura del Demone del sesto cielo, che prova piacere nello sfruttare gli altri, si alimenta con il disprezzo, la chiusura, la paura
Il potere è un modo di pensare il mondo. È una logica, un meccanismo in base al quale c’è chi comanda e chi subisce, chi vince e chi perde, chi è forte e chi è debole. Potere è fare questa guerra. E tutte le altre. Potere è non far nulla per evitarla. Ma potere è anche sentirsi impotenti, non dare “potenza” alla propria vita, alla propria autodeterminazione. Potere è giudicare se stessi o gli altri secondo dei modelli. Potere è chiedere a tua figlia: «Che voti hai preso oggi a scuola? Sei stata la più brava?». Potere è il motto di Hobbes: homo homini lupus. Potere è fregare l’automobilista accanto e passare per primo. Potere è pulire la tovaglia nel giardino della signora di sotto, è sentire la musica a tutto volume. Potere è vendere l’eroina, potere è farsi di eroina, potere è violentare una persona, potere è non denunciare quella violenza. Potere è imporre il burqa alle donne afgane, potere è voler togliere loro quel burqa. Potere è obbligare tutto il mondo a parlare inglese, a pensare inglese. Potere è il sistema economico globale, ma potere è la nostra vita quotidiana, la nostra schiavitù al consumismo, mantenuta dalla fame dei due terzi della popolazione mondiale. Potere è sentirsi meno o sentirsi più. E anche sentirsi “uguali”, branco, maggioranza, massa. Potere è sacrificare gli altri per i propri fini. Una storia musulmana racconta di tre tori che pascolavano in un grande prato verde, e di un leone che se li voleva mangiare ma non ci riusciva, perché il terzetto era molto unito e i tre si proteggevano a vicenda. Un giorno che il toro nero non venne il leone disse agli altri due: «Se me lo farete mangiare avrete a disposizione l’intero prato solo per voi, e io avrò la pancia piena per tutto l’inverno». I due acconsentirono: il leone uccise il toro nero e loro si godettero il prato fino a primavera. Passato un po’ di tempo, una volta che il toro rosso era tutto solo il leone gli si avvicinò: «Fammi mangiare il toro bianco, così avrai il prato tutto per te. Che ne dici?». Il toro rosso assentì, e fu così che poco dopo fu mangiato anche lui.
Servizio o dominio?
La radice indoeuropea del termine potere è potis, signore, colui che può: esercitare un diritto/permesso (vedi anche l’inglese may), o esprimere una capacità/potenzialità (inglese can). Adolfo Perez Esquivel, nell’intervista pubblicata su questo giornale, dà anche lui una doppia definizione del concetto di potere, di servizio e di dominio, che potremmo definire rispettivamente come “potere di” fare qualcosa e “potere su” qualcuno o qualcosa. Per potere come servizio potremmo intendere il fatto di contribuire con il proprio essere, le proprie uniche capacità e potenzialità, a un complesso più ampio di cui ci si sente parte, fatto di esseri umani e di altre entità viventi e non viventi. Esprimendo con tale atteggiamento la propria potenza – perché le caratteristiche individuali vengono manifestate e non inibite – e al contempo il massimo rispetto per ogni elemento con cui si ha relazione, in un rapporto di assoluta pari dignità e mutua necessità. Rompere questa relazione di collaborazione reciproca che, come sosteneva Dudley Weeks nello scorso numero di Buddismo e società, è il comportamento naturale degli organismi viventi, una sorta di itai doshin naturale, e cominciare a considerare la “mia individualità” o la “mia capacità” più importante della “tua”, a sentire gli altri e l’ambiente come limite “scomodo” alla propria autorealizzazione o come “strumento” per realizzare i propri fini, trasforma il potere di fare qualcosa da capacità o dote al “servizio” di sé e degli altri in un mezzo per esercitare potere su qualcuno o qualcosa. Diventa appunto dominio, una relazione squilibrata tra parti diseguali: chi esercita il potere e chi lo subisce. E, come reazione, la libertà diventa non più libertà di ma libertà da. Nel Buddismo il potere come dominio viene identificato con la figura del demone del sesto cielo, definito come colui che fa libero uso dei frutti degli sforzi degli altri per il proprio piacere. «Lo si può considerare – suggerisce Daisaku Ikeda nella Saggezza del Sutra del Loto (vol. 2, p. 140) – come la tendenza fondamentale della vita a servirsi di tutto e tutti come mezzo per i propri fini». In La cura della malattia Nichiren Daishonin dice: «La qualità oscura della natura originaria dell’essere umano si manifesta nel demone del sesto cielo». «Io credo – commenta Ikeda ne La vita mistero prezioso (pp. 126-128) – che la “qualità oscura” della natura originaria dell’essere umano sia l’egoismo che risiede all’interno del sé. Potremmo anche chiamarla il demone della vita, che prende il controllo del sé e lo costringe a operare esclusivamente a proprio vantaggio». L’aspetto oscuro dell’essere umano si esprime quindi, secondo il Buddismo, nella sua schiavitù al meccanismo perverso del potere, nella sua volontà di dominare il resto dell’esistente impedendogli di manifestare le sue qualità tipicamente “umane” di empatia e compassione. «Non è senza significato – continua Ikeda – il fatto che i demoni che abitano il Sesto cielo godano della vita dell’Estasi suprema grazie al controllo e allo sfruttamento degli altri. Ovviamente è proprio l’atto del controllare e dello sfruttare gli altri che sta alla base di questa estasi. […] Nella nostra vita, la felicità che otteniamo dall’affermazione del nostro controllo sulla natura e sulle altre persone ha una certa caratteristica diabolica».
Quale potere?
Si tratta di un potere occulto, sottile, di cui siamo tutti schiavi, sia chi lo esercita e sia chi lo subisce. Rompono le scatole questi quattro quinti del pianeta che vivono con meno di mezzo dollaro al giorno, rompe le scatole quel sentimento di pena e d’impotenza che ogni tanto sento dentro di me. Perché devo correre, devo vincere, devo essere brava, efficiente. I soldi, la carriera, lo status. È una freccia, una direzione a senso unico. Il progresso a tutti i costi, la crescita economica a tutti i costi, il successo a tutti i costi. E se non sei dentro, sei fuori. Sei “in via di sviluppo”. Non si tratta solo di arraffare. Non è solo una questione di avidità. Si tratta del complesso di valori che tutto ciò ha messo in moto, quello che detta le misure, i metri di gudizio, l’analisi della realtà. Un sistema che inquina silenziosamente, che fa dubitare del vicino, che mette tutti in competizione, in gerarchia, che reprime la collaborazione. Un sistema che rende ciechi e irresponsabili perché prigionieri di un’ideologia che non permette di vedere i suoi effetti nefasti. Scrive il filosofo Achille Rossi che proprio questa è «la differenza fra l’ideologia economica dominante e i regimi oppressivi che l’umanità ha conosciuto nel corso della sua storia millenaria. La repressione aperta produce lotta e ribellione, esalta i martiri e i testimoni; la repressione silenziosa è una specie di dolce e piacevole eutanasia della coscienza e porta all’omologazione planetaria» (Il mito del mercato, L’altrapagina, Città di Castello, p. 49).
L’ignoranza di sistema
Nella serie Sette sentieri per l’armonia globale Ikeda analizza il concetto di “spirito astratto”, espressione coniata dal filosofo francese Gabriel Marcel per indicare la tendenza da imporre ordine all’animo umano dal di fuori, spesso attraverso la pressione esterna. Questo accade quando si fa l’errore di collocare l’ideologia al di sopra della realtà delle persone, sacrificando vite umane allo spirito astratto. Quando si ha troppa fretta di riformare il sistema dimenticandosi l’individuo, che è la parte più importante del processo di riforma. Quando si fa la distinzione tra buoni e cattivi, tra bravi e meno bravi, quando si crea il Nemico, quando si inglobano i singoli individui in categorie fisse, come gli extracomunitari, i negri, le donne, gli omosessuali… Osserva Marcel: «Per trasformare qualcuno in capro espiatorio è indispensabile che lo converta in un’astrazione: il comunista, il fascista, l’antifascista e così via…». Commenta Ikeda: «Se ci costringiamo a riesaminare gli incubi del ventesimo secolo – purghe, olocausto, pulizie etniche – scopriremo che tutti hanno avuto origine da un ambiente in cui il linguaggio era manipolato per attirare l’attenzione delle persone unicamente sulle differenze. Convincendo la gente che queste differenze erano assolute e immutabili si oscurava l’umanità degli altri, legittimando così la violenza nei loro confronti». Quando le astrazioni sono date come certezze diventano miti, alimentando il dogmatismo, l’intolleranza e il fanatismo.Creando quello che Ortega y Gasset ha definito uomo-massa, un individuo con un forte appagamento di sé che «lo porta a chiudersi a ogni istanza esterna, a non ascoltare, a non mettere sulla bilancia del giudizio le proprie opinioni e a non far conto degli altri. La sua sensazione intima di dominio lo stimola costantemente a esercitare un’azione di predominio. Agirà, quindi, come se soltanto lui e i suoi consimili esistessero al mondo…». E cercherà di imporre lo stesso “bene” a tutti, spesso con ogni mezzo. È questo il dramma delle rivoluzioni, perché il bene non si può imporre, perché non c’è un bene uguale per tutti se non quello della vita, di ogni vita e delle sue inesauribili potenzialità. Per questo il Buddismo oppone all’astrazione della massa la concretezza del cambiamento di ogni singola persona. È la rivoluzione umana di ogni uomo e di ogni donna, in continua interrelazione, che può costruire un nuovo mondo, imprevedibile, dinamico, con infinite possibilità. «Nella vita – scrive Ikeda nella Saggezza del Sutra del Loto (vol. 2, p. 147) – non c’è un ordine gerarchico. Tutta la vita ha un valore inestimabile. Dobbiamo educare i bambini e gli adulti in modo che nessuno si senta impotente. Dobbiamo nutrire il cuore e creare una vera solidarietà umana. Questa sarà la chiave per l’epoca attuale».
Com-passione, com-petizione
Soffrire insieme, cercare insieme. È il prefisso “com” (cum, in latino) che sposta i termini della questione. Che scardina la logica del dominio. Che distrugge i sistemi autoritari. Che trasforma la freccia del potere nella rete delle relazioni. Come quel gruppo di bambini africani – nel racconto di Raimon Panikkar – invitati a gareggiare per conquistare delle caramelle, che si prendono per mano e corrono insieme verso la meta. (cfr. R. Panikkar, “Economia e senso della vita”, in Aa. Vv, Come sopravvivere allo sviluppo, l’altrapagina, Città di Castello, 1997). «La natura demoniaca del potere – scrive ancora Ikeda (ibidem, p. 144) – opera per disintegrare e dividere. Divide le persone, divide un paese da un altro, spezza i legami dell’individuo con la natura. La compassione invece unisce. Nell’universo c’è una compassione che unifica. In origine l’universo è compassione e, in questo senso, è il palcoscenico ideale per la lotta tra il Budda e il demone, tra la natura demoniaca del potere che considera la vita come un mezzo e la compassione che fa della vita il fine».
Il rispetto militante
Ma come si lotta? Nel Sutra del Loto c’è un bodhisattva chiamato Mai sprezzante (Fukyo, in giapponese). Egli crede che, poiché tutti gli esseri umani posseggono la natura di Budda, nessuno possa essere disprezzato, che a ogni forma di vita vada accordato il massimo rispetto. Anche quando persone tronfie e arroganti lo denunciano e lo colpiscono con bastoni e pietre, egli continua a rifiutarsi di disprezzarli, convinto che ciò equivarrebbe a disprezzare il Budda. E continua a predicare questa dottrina fino alla fine, manifestando un supremo rispetto per l’umanità in ogni sua parola o azione. È un rispetto militante. Fa pensare a un dialogo incessante, a una ricerca continua dell’altro/altra, a un desiderio di imparare, a un instancabile confronto con chi ha opinioni diverse, con chi non la pensa come noi, con chi consideriamo il Nemico o il pericolo. Certo, bisogna attrezzarsi. In realtà l’incrollabile perseveranza del bodhisattva Fukyo si basa sulla sua assoluta convinzione di essere egli stesso un Budda, di avere il potere del Budda. Questa certezza – sostiene Ikeda – è l’essenza della disciplina buddista, l’allenamento a sviluppare costantemente questo pensiero, questa consapevolezza, questo potere. Scriveva Leonardo da Vinci: «Non si può aver dominio più grande o più piccolo che quello su se stessi». Se siamo sufficientemente padroni di noi stessi, se ci conosciamo abbastanza per “trasformare” il nostro aspetto oscuro e coltivare la nostra “parte illuminata”, non saremo costretti – per sentirci “bene” – a imporre i nostri valori agli altri e nemmeno a calpestare i loro ideali, valori e tradizioni. Ci sentiremo invece così forti e potenti, così bene e a nostro agio da provare curiosità, interesse e amore per chi è diverso da noi, per sconosciuti modi di essere e di sentire. E di pensare il mondo.
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